La Città Senza Timone: decenni di indecisione e il futuro incerto della città

24 Febbraio 2025
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Sono passati quasi 3 decenni da quando Torino – Olimpiadi e turismo a parte – non ha saputo scegliere con decisione il suo futuro nei vari campi d’azioni della città. Una città acefala, eppure sono tanti coloro che hanno avuto la possibilità di indicare una direzione.

Prendere una decisione, in un’azienda, significa assumersi grandi responsabilità. Soprattutto se questa comporta investimenti in momenti nei quali l’evoluzione tecnologica e il contesto economico indurrebbero alla prudenza. Eppure non si può rimanere fermi. Anzi, tante volte sono proprio le decisioni prese in tempi difficili quelle garantire un vantaggio o, più semplicemente la sopravvivenza. 

Ora proviamo a portare questo schema azione in un territorio ben definito: la città di Torino. Nel corso dei nostri podcast, da persone che operano in diversi campi, è emerso un dato di fatto: la nostra città negli ultimi 25 anni, non ha fatto scelte. L’ingresso nel nuovo secolo è stato più caratterizzato dalla casualità che da una sana politica industriale. Perché di questo stiamo parlando, non di scelte di “contorno” (anche se mediaticamente importanti) come la decisione di puntare sul turismo e sulla cultura o, ingrandendo il discorso, sulle Olimpiadi. 

Decisioni che sì, hanno cambiato la città, attribuendole però un ruolo che non basta assolutamente a soddisfare la necessità di crescita e di sostentamento di Torino e del suo hinterland. Aggrapparsi alla zattera di una produzione automobilistica non serve: ormai è diventata un discorso da malato terminale, con poche riprese possibile su alti volumi. In pratica: o si cambia paradigma oppure diventa molto pericolo continuare a sollecitare interventi come sovvenzioni a fondo perduto. 

La mancanza di scelte sulle quali puntare – e comunicarle bene – ha fatto narrare ai giornali una città in crisi, incapace di evolversi, stantia e demotivata. Come mai? Quale assurdo meccanismo o volontà collettiva non ha fatto reagire una città volitiva e operosa come la prima capitale d’Italia? 

Probabilmente i punti di forza del passato si sono tramutati in punti di debolezza. Sicuramente l’aver avuto un ruolo forte – politico o industriale che sia – ha portato la città ad organizzarsi con schemi ben precisi, che mal si adattano alla perdita del settore leader o alle mostruose sfide della modernità. Tempi nei quali la concorrenza fra i territori è stata accentuata dalla globalizzazione, logica che in 3 decenni ha spazzato quasi del tutto interi settori come il tessile o favorito concentrazioni industriali nei quali l’Italia ha quasi sempre avuto la sorte peggiore (vedi FCA in Stellantis). 

Ricordiamolo: il rapporto Rota (fatto dal Centro Einaudi) ha sempre dettagliatamente descritto queste cose, senza forse essere preso però come punto di riferimento non solo dalla politica ma anche da altre istituzioni (Camera di Commercio, Unione Industriali e fondazioni bancarie). Ognuno tende ad andare in solitaria, senza dare un’idea di futuro alla città. Tutti hanno però ben presente il loro futuro, con iniziative che però tendono ad essere un po’ inefficaci perché – appunto – sono calate in un contesto nel quale occorre dare messaggi forti e unitari non solo nel settore industriale ma anche in tutto quello che si fa per attrarre investimenti o promuovere settori strategici. Il problema è proprio nella moltitudine di voci, provenienti da fonti diverse, che fanno sembrare la nostra città simile ad una babele. Eppure, ora come non mai, sarebbe opportuno avere dei punti fermi, perché è osceno e assurdo che da 15 anni si debba leggere di una città “in cerca di nuove vocazioni” e perennemente orfana dell’industria dell’auto.

Ad essere invece in perfetta forma sono enti come il Politecnico e Unito (facoltà umanistiche ed economiche) che, grazie alla vocazione di Torino come città universitaria (il che ha portato a fare tanti studentati). Il problema è che però questi studenti – soprattutto gli ingegneri – tendono ad andare in altre regioni d’Italia o d’Europa perché gli stipendi non sono all’altezza. Qui a Torino, in pratica, si ha un “buon livello di sopravvivenza”, ma niente di più.

Altro settore interessante, se si può includere, è quello delle start up. Negli ultimi anni sono fioriti tanti incubatori, partendo da quello che è stato il pioniere: l’i3P del Politecnico. Altri poi si sono aggiunti (OGR, Talent Garden e università private) ma forse a mancare è una comunicazione unica su tutte le iniziative. E’ di qualche giorno fa la notizia della candidatura di Torino a “Capitale europea della cultura” per l’anno 2033. Bene, ma non sarebbe meglio perdere questa cosa e concentrarsi sulla formazione e sul mantenimento del capitale umano a Torino (tema del libro di Giorgio Donna e Luca Davico). Per chi sarà la capitale della cultura (tenuto conto del declino demografico)? Occorre avere delle priorità, che per me non sono quella di avere l’ennesimo evento.

Su tutto questo incombe la demografia: Torino, dal record di 1.200.000 abitanti di metà degli anni ‘70 ai circa 853.000 di oggi. Un dimagrimento che è stato solo in parte compensato dalla crescita dei paesi dell’hinterland (se non in minima parte). E’ la quarta città italiana per numero di abitanti dopo Roma, Milano e Napoli. Che destino avrà? La vera sfida, in sintesi, è quella di migliorare il sistema industriale torinese e cercare di far rimanere qui i giovani laureati nelle materie scientifiche (con stipendi più alti).

1) aumento dei posti nell’Inalpi Arena

2) Allestimento di un “court village” fisso (utile sia per le ATP sia per l’eventuale torneo)

3) Ruolo del Circolo della Stampa Sporting (sede dei campi di allenamento).

In tutto questo programma i soldi “sembrano” non mancare, tenuto conto che sia la Regione sia il Comune sono disposti a elargire denari. Quello che manca è però è la “lista della spesa”, cosa che qualsiasi casalinga di Voghera è in grado di fare. Nonostante le centinaia di articoli non è infatti dato sapere chi pago cosa. Esempio: chi ha pagato l’allestimento del campo dell’Inalpi Arena? Chi il fan village (4 milioni di euro ogni anno, il che vuol dire 20 milioni di euro spesi)? Chi l’affitto dei campi di allenamento dello Sporting? La Federazione Italiana Tennis quanti ne ha messi? Sembrano domande scomode, invece dovrebbero essere la normalità in quella che è la città più indebitata d’Italia.

Per lo Sporting (che invece dovrebbe essere chiamato Circolo della Stampa Sporting, ovvero la “casa” sportiva dei giornalisti) la situazione sembra essere quella di un grande investitore, anche se un po’ sprovveduto: per ristrutturare gli edifici e fare i campi di allenamento la società si è indebitata fino a dover vendere gran parte di Palazzo Ceriana Mayneri, che ospita anche l’Ordine dei Giornalisti e l’Associazione Stampa Subalpina. Queste due ultime realtà dovranno presto cercare nuova casa, perché sono in affitto dalla società immobiliare dello Sporting. Lo storico palazzo, all’angolo tra i corsi Stati Uniti e Galfer, è stato acquistato da una società immobiliare facente capo all’industriale che è presidente della Camera di Commercio, Gallina. Altro tassello: il Circolo della Stampa Sporting (in corso Giovanni Agnelli) non è proprietario dei terreni sui quali ci sono le strutture. Queste sono in capo al Comune e proprio l’anno prossimo scade la concessione. Con quale criterio sarà rinnovata? Se – per dire – l’ATP versa attualmente un affitto per i campi ad un ente privato (lo Sporting) non sarebbe giusto per il futuro che il Comune limitasse la concessione dei terreni, in modo da incassare quanto dovuto e recuperare un po’ di spese sostenute per preparare quella parte di città alla ATP Finals?

La situazione è paradossale perché il presidente dell’ODG, quello dell’Associazione Stampa Subalpina e il presidente del circolo della stampa Sporting sono andati a chiedere a Lo Russo una sede proprio in vista del futuro e probabile sfratto. C’è da dire che sembra strano che l’ODG in tanti anni non abbia provveduto a comprare una sede (l’ordine degli architetti ne ha una, in più stanno ristrutturando un palazzo per la futura nuova sede vicino al Polo del 900). Spiazzati quindi dalle novità derivanti dallo sfratto ricevuto dalla società immobiliare del Circolo della Stampa (con la quale secondo il buon senso dovrebbe formare squadra) ora si ritrovano ad essere senza sede, perché il presidente del Circolo della Stampa Sporting ha voluto spendere molto per ristrutturare sede e campi di Corso Agnelli. Malagestione o era tutto pianificato (ovvero vendere poi palazzo Cariana Mayneri)? C’è da dire che ad essere ammessi come soci allo Sporting sono non solo i giornalisti ma anche i privati (con quote non proprio popolari).

Tornando al discorso generale: cosa offre in più Milano per le ATP?

1) Un’arena con il 30% in più dei posti

2) Un bacino di spettatori più grandi (teniamo conto dell’Emilia Romagna).

3) L’abbinamento con la città più internazionale d’Italia.

Ma tutte queste considerazioni sono sterili se non si conoscono le cifre in ballo (e si torna alle domande di prima). E’ questa mancanza di trasparenza che rende il futuro dell’ATP non incerto ma nebbioso riguardo gli investimenti. Il tutto mentre, ricordiamolo, Torino avrebbe bisogno di un centro fieristico di proprietà. Il che vuol dire risorse, che ora come ora sembrerebbero distratti dalle ATP. Occorre quindi pianificazione per la città, non solo per le ATP. La coperta è corta e il ritorno degli investimenti è fondamentale. Ne teniamo conto, perfavore?

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